Varroa destructor è un acaro parassita esterno che attacca le api Apis mellifera

L’acaro varroa è stato trovato anche su altri insetti impollinatori quali il bombo, lo scarabeo e la mosca dei fiori. Sebbene l’acaro varroa non possa riprodursi su questi insetti, la sua presenza su essi può essere un mezzo tramite cui diffondersi nel raggio di brevi distanze.

La varroa si può riprodurre solamente in una colonia di api mellifere. Si attacca al corpo dell’ape e la indebolisce succhiandone l’emolinfa. Durante questo processo l’acaro può anche trasmettere agenti virali RNA all’ape. Una grande infestazione di acari porta alla morte della colonia, di solito tra la fine di autunno e l’inizio della primavera. L’acaro varroa è il parassita con il più pronunciato impatto economico nell’industria dell’apicoltura.

Origine

Fino a poco tempo fa la Varroa destructor veniva confusa con la Varroa jaco, una specie di acaro molto simile. Entrambe le specie infestano l’ape mellifera asiatica (Apis cerana). La specie di acaro originariamente descritta come Varroa jacobsoni da Anthonid Cornelis Oudemans nel 1904 fa parte dello stesso complesso di specie, ma non è la stessa che effettuò il salto sull’Apis mellifera. Probabilmente questo salto avvenne per la prima volta nelle Filippine nei primi anni sessanta. Solo dopo che l’Apis mellifera fu importata nelle Filippine venne a stretto contatto con l’Apis cerana e quindi la varroa divenne parassita anche dell’Apis mellifera. Fino al 2000 gli scienziati non erano d’accordo sull’identificare la Varroa destructor come una specie separata. Nel 2005 si scoprì che tra gli almeno 5-6 genotipi identificati da Anderson e Trueman gli unici acari varroa che possono riprodursi nelle colonie delle Apis mellifera sono i genotipo della Varroa destructor della Corea e del Giappone/Thailandia. La Varroa jacobsoni è un parassita dell’Apis cerana del tutto benigno. Quest’ultima identificazione, effettuata nel 2000 da Anderson e Trueman, portò un po’ di confusione e qualche errore nella letteratura scientifica.

Anatomia

Colore: bruno-rossastro.

Lunghezza: 1.00-1.77 mm.

Larghezza: 1.50-1.99 mm.

Forma: piatta, a bottone.

Dotata di otto zampe.

Ciclo di vita

L’acaro femmina entra in una cella di una covata delle api mellifere, dando la preferenza ad una cella contenente covata maschile, ossia una larva di fuco. Non appena la cella viene opercolata, l’acaro depone le uova. I giovani acari escono dal guscio all’incirca nello stesso momento in cui la giovane ape si sviluppa e lascia la cella col suo ospite. Il Centro svizzero di ricerche apicole ha indagato scientificamente sul ciclo di vita della varroa nella cella opercolata e ne ha pubblicato i risultati.

Il modello per la dinamica di popolazione è quello di una crescita esponenziale quando la covata delle api è disponibile e di un declino esponenziale altrimenti. Popolazioni estese di acari in autunno possono portare a una crisi quando l’allevamento dei fuchi cessa e gli acari passano alle larve delle api operaie, causando una veloce decimazione della popolazione e spesso la morte dell’alveare.

Riproduzione

L’acaro si riproduce in un ciclo di dieci giorni. Il numero di parassiti negli alveari di ape mellifera raddoppia ad ogni ciclo di covata dell’ape. In Russia alcuni ecotipi locali di ape sembrano avere una migliore resistenza agli attacchi del parassita. Inoltre il più breve tempo di sviluppo delle api operaie degli ecotipi africani rispetto alle razze europee sembra rendere anch’esse meno vulnerabili.

La sindrome parassitaria causata dall’acaro varroa è denominata varroatosi. Oramai presente in quasi tutto il globo, attualmente sono esenti solo Australia e Madagascar, non esiste alcuna cura risolutiva sia per la difficoltà nella totale eradicazione del parassita dalla singola famiglia sia per il velocissimo fenomeno della reinfestazione da deriva. Tra i metodi di contenimento vi sono gli acaricidi chimici di sintesi come alcuni piretroidi (fluvalinate, flumetrina), organofosfati (coumaphos) e triazapentadieni (amitraz). Alcuni di questi hanno dimostrato limiti sia nella contaminazione della cera sia provocando fenomeni di resistenza selettiva con conseguente calo di efficacia. Sono ora più diffusi metodi chimici di origine naturale ovvero:

acido ossalico gocciolato, spruzzato, sublimato o in strisce di cartone con glicerina;

acido formico evaporato;

acido lattico spruzzato;

olii essenziali quali il timolo.

Nella tendenza attuale si vanno diffondendo metodi di contenimento basati su determinate pratiche apistiche:

sciamatura artificiale e arresto della covata;

telaino trappola sfruttando la predilezione per le celle da fuco.

Malattia

Che cos’è

Diagnosi

Gli adulti sono lunghi 5-7 mm e larghi 2,5-3,5 mm (1/3 delle dimensioni di un’ape operaia). Di colore chiaro dopo essere emerso dallo stadio di pupa, il coleottero si scurisce passa

ndo da bruno a nero. Testa, torace e addome sono ben distinti. Un eleme

nto chiave per l’identificazione di questo coleottero è costituito dal fatto che la struttura che ricopre le ali (elitra -d) è più corta dell’addome cosicché l’estremità dell’

addome rimane scoperta (e). Possiede inoltre delle caratteristiche antenne “a clava”(f).

I segni clinici di infestazione da A. tumida sono sostanzialmente legati alla presenza delle larve:

Ciclo biologico

Modalità di diffusione

La diffusione avviene per via naturale in quanto SHB è in grado di volare. La diffusione è favorita dalla movimentazione di pacchi d’ape, colonie, sciami, favi, cera o attrezzature apistiche. La movimentazione internazionale di terreno, frutta e ospiti alternativi (ad es. bombi) possono costituire altre vie di introduzione.